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Annullata la sentenza della Corte di appello che aveva ritenuto prescritto il diritto al beneficio di un 43enne che aveva contratto l’epatite C per trasfusioni di sangue infetto dopo la nascita; dovevano essere i sanitari a fornire indicazioni al paziente circa la probabile origine della malattia

Aveva sviluppato una grave forma di anemia dopo la nascita, alla fine degli anni settanta. I medici, pertanto, avevano deciso di sottoporlo a trasfusioni, ma il sangue – come si scoprirà dopo anni – era infetto.

Il paziente, oggi 43enne, a causa di quella somministrazione aveva contratto l’epatite C ed era stato costretto a numerosi trattamenti sanitari. L’uomo, nel 2007 (dieci anni dopo la scoperta della patologia) aveva deciso di agire in giudizio nei confronti del Ministero della Salute per ottenere il risarcimento dei danni patiti.

In primo grado, il Tribunale di Napoli gli aveva riconosciuto una cifra pari a circa 100 mila euro, ma la Corte di appello aveva ribaltato il verdetto dichiarando prescritto il diritto del danneggiato, in quanto quest’ultimo, già all’età di 19 anni avrebbe dovuto ricollegare la sua malattia alla trasfusione somministratagli dopo la nascita, anche alla luce dello scandalo del sangue infetto scoppiato negli anni ’80 in Italia.

La Cassazione, tuttavia, nei giorni scorsi ha accolto il ricorso presentato dalla parte lesa. Per i Supremi Giudici, infatti, dovevano essere i sanitari a fornire indicazioni al paziente circa la probabile origine della malattia, non potendosi pretendere che il paziente ricollegasse, senza alcuna competenza scientifica, la sua patologia alla trasfusione di sangue infetto.

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